L’incidente di Fiumicino - Uno psicologo nell’emergenza ospedaliera - Conosco Imparo Prevengo

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L’incidente di Fiumicino - Uno psicologo nell’emergenza ospedaliera

Archivio > Aprile 2008 > Psicologia delle emergenze

C.I.P. n. 4 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE

Uno psicologo nell’emergenza  ospedaliera.
Una presenza discreta e al contempo un forte sostegno all’interno di un pronto soccorso.
Gianni Vaudo
(Presidente Associazione "Psicologi per i Popoli" Lazio)

La mattina del 26 febbraio, quando accendo il mio cellulare, vengo in poco tempo a sapere di un brutto incidente d’auto che ha coinvolto anche bambini, avvenuto nell’area di Fiumicino - Parco Leonardo.
L’allerta per gli psicologi è partito dal 118, in breve è arrivato anche a me dalla responsabile del Centro Alfredo Rampi, che a mia volta trasmetto l’informazione ad altri colleghi dell’associazione che attualmente presiedo, Psicologi per i Popoli – Lazio.
I messaggi che mi giungono sull’entità del disastro e sul relativo bisogno di assistenza psicologica non sono univoci nei minuti che si susseguono, e cerco di contenere le emozioni e l’impulso a muovermi ponendo gli indugi di una valutazione dei fatti almeno un po’ meditata, per cercare di soddisfare al meglio le possibili esigenze anche in una prospettiva non immediata.
Nel giro di poco più di un’ora mi viene detto che l’area dell’incidente è in fase di sgombero, per cui offro la mia disponibilità a recarmi in un ospedale dove sono stati ricoverati dei feriti. Al Grassi di Ostia, dove telefono, risultano effettivamente ricoverati due feriti, per cui mi avvio nella speranza di poter essere di qualche utilità; in verità nutro anche qualche timore su come la mia presenza sarà accolta nell’istituzione ospedaliera. Nei fatti invece non viene posto alcun ostacolo o ritardo al mio intervento; colgo una aspettativa positiva nei miei confronti, soprattutto negli sguardi degli infermieri.
I due pazienti sono ovviamente nelle salette del pronto soccorso: l’uno, ventenne, con la testa fasciata ma in posizione seduta sul letto, calorosamente assistito da parenti e amici; l’altro, sui trenta-quaranta anni, è invece supino senza neanche il cuscino, coperto da un lenzuolo fino al collo e ha problemi più gravi. Entrambi sono all’inizio un po’ sorpresi, ma pochi attimi e il contatto si crea. Dico chi sono, che sono mandato dal 118 e comincio a informarmi dell’accaduto in termini molto generici. Mi alterno tra l’uno e l’altro, che sono in due locali attigui ma non possono vedersi, concentrandomi molto più sul secondo che in quei momenti è solo, aspettando visite specialistiche.
Entrambi viaggianti nelle rispettive auto, al momento dell’impatto non avevano perso coscienza, riferendo comunque di non aver visto nulla di quanto accaduto alle persone in attesa del bus. Sapevano però che dei bimbi erano morti sulla strada, e questo sembrava essere il pensiero più tormentoso che a tratti si inseriva di prepotenza tra le preoccupazioni per la propria salute.
Avendo libertà di movimento, sono uscito più volte dalle salette del pronto soccorso per cercare i parenti della persona più grave, per costituire un tramite di informazioni carente da entrambe le parti, dopo il fugace contatto che avevano avuto nei primi momenti del ricovero. La più provata sembrava la moglie di quest’uomo, disponibile a parlare ma preoccupata all’inizio che io potessi essere un giornalista, di cui diceva di aver già subito l’invadenza. Un momento difficile è stato il decesso di una vecchina attaccata a vari macchinari che scandivano anche sonoramente le varie funzioni corporee. In quel momento il personale ha provveduto a mettere un separè, e i parenti che le erano intorno sono stati di una dignità e contenimento del tutto esemplare. Ciononostante mi mettevo molto nei panni del mio assistito lì disteso, con dolori a tratti acuti, con l’angoscia del verdetto del chirurgo ortopedico sulla vertebra rotta, in quel contesto di morte.
Cosa ho cercato di fare, in definitiva? Mi sembra di aver costituito una figura di sostegno, dal tono molto amichevole e dove possibile sdrammatizzante, attento ad accogliere e dar voce ad istanze ed esigenze della persona traumatizzata, sia "reali" che legate all’ansia e alla paura del futuro. Sì, una forza a servizio della persona in quel momento indebolita e regredita, rispetto a un ambiente esterno – ospedale e tutte le figure che vi ruotano – ma insieme nell’"ambiente interno", dove le capacità di pensiero e di analisi di realtà, limitate dallo choc, lasciano facilmente spazio a prefigurazioni devastanti, in una paradossale dimensione di tempo interno bloccato.
Tra l’altro, nel mio muovermi tra l’ambiente di cura e la sala d’attesa dei familiari, sono stato notato e interpellato da persone che avevano un congiunto ricoverato per tentato suicidio, e che non riuscivano a sapere nulla. In realtà la persona era stata già oggetto di attenzione particolare, ma non desiderava incontrare i parenti, e questo aspetto delicato della questione era, in quei frangenti, passato in secondo ordine. Ho cercato di offrire un minimo di ascolto a persone che, con reazioni di rabbia o disperazione, esprimevano un forte disagio, in una situazione comunque emergenziale.
Metto in evidenza questo episodio in conclusione di questa breve ma significativa esperienza, per dire quanto mi sia apparso di grande utilità potenziale l’apporto psicologico in un pronto soccorso, anche con funzione di sostegno a infermieri e medici a contatto giornaliero con il trauma e la morte.


 
 
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