Emozioni e sensazioni di una volontaria del NOAR - Conosco Imparo Prevengo

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Emozioni e sensazioni di una volontaria del NOAR

Archivio > Agosto 2009 > Protezione civile e volontariato

C.I.P. n. 8 - PROTEZIONE CIVILE E VOLONTARIATO

EMOZIONI E SENSAZIONI DI UNA VOLONTARIA DEL NOAR
RACCONTO DELLE VARIE FASI DELL’ INTERVENTO NELL’EMERGENZA
Serna Maurizi
Volontaria NOAR - Nucleo Operativo Alfredo Rampi

E’ il 5 aprile. Domenica. E’ finalmente sera. Una passeggiata con il cane e finalmente a letto. Tutto normale. Mi addormento. Poi alle 3.30 qualcosa mi sveglia. Ninnoli che sbattono tra di loro, cose che cadono, il letto che dondola in maniera evidente, il cane che mi sta accanto mugolando, il gatto sul letto. Non capisco cosa succede. Non capisco. 30 lunghissimi secondi di assoluta incertezza. Poi improvvisamente tutto si chiarisce. Il terremoto. Mio figlio sta bene. Casa è a posto. Realizzo che sta succedendo quello per cui mi sto allenando da 8 anni. Respiro profondo. Mentalmente mi preparo a partire per i soccorsi. Ripasso a memoria tutta l’attrezzatura che mi potrebbe servire e che è già tutta pronta. Accendo il cellulare. Intanto apro la porta di casa, sento le persone gridare. Cerco di calmare gli animi. Passa mezzora e arriva il primo SMS di pre-allerta. Ci penso un attimo prima di rispondere, mi interrogo se sono pronta,
no non sono pronta per niente non si è mai pronti a questo, ma sono allenata. Almeno penso di esserlo... E rispondo ci sono. Appuntamento al campo. L’atmosfera è irreale. Siamo tutti consapevoli che questa non è la solita esercitazione e anche un po’ spaventati. Partiamo. Ripasso delle cose da fare e dei comportamenti da tenere. Silenzio nel furgone. L’autostrada vuota. Ci siamo solo noi. La paura si percepisce forte quando passiamo sopra ai dislivelli dei viadotti. Siamo pronti, ci siamo allenati mille volte. Si ride anche, ma nervosamente e si cerca di far scendere la tensione. Arriviamo. Paesaggio spettrale. Palazzi caduti, gente in strada, caos rumore, persone che si aggirano con lo sguardo spento, perso nel vuoto. Respiro profondo. Si comincia.
Cerco di pensare solo a fare il mio lavoro. Trovare le persone. Nulla di più. Non devo tirarle fuori, quello è compito di altri, io devo trovarle. Primo intervento. Vado io. Sono la più anziana. Sento dietro di me la squadra che mi guarda. Non sono sola. Io sono avanti i miei colleghi mi guardano le spalle pronti ad avvertirmi in caso di pericolo. Il cane viene inviato sulla maceria. Per lei questo è una specie di enorme Luna Park. Il suo divertimento è al massimo. Cresce ancora di più solo quando arriva un’altra scossa di terremoto. Per lei è un gioco. Per me un po’ meno. Ma inizia ad abbaiare. Ha trovato qualcuno. Abbaia, scodinzola, abbaia e con gli occhi mi chiede di andare a controllare. Vado vicino a lei, la premio, veniamo via. Ora deve andare un altro cane per confermare il posto. Riferiamo ai Vigili del Fuoco il posto preciso dove scavare. E il nostro compito qui è finito. Andiamo in un altro posto. Altre ricerche, altre emozioni, altri dubbi, scruto il cane che conosco così bene e adesso mi rendo conto che non sarebbe possibile fare questo senza la profonda conoscenza reciproca. Nessuna emozione. Solo lavoro da portare a termine. Non puoi farti coinvolgere. Per te questo è un lavoro da portare a termine. Al padre che ti stringe forte il braccio sinistro, ti guarda negli occhi e ti dice "la prego mi porti fuori mia moglie e mia figlia" non puoi rispondere altro che "Faremo del nostro meglio". Basta. Per te ora è un lavoro da portare a termine. Insieme alla tua squadra, ognuno guarda le spalle di qualcun altro, l’unico compito che hai è di fare del tuo meglio e di non pensare che avresti potuto fare di più…………. Così non sopravvivi e non porti avanti il tuo lavoro fino alla fine. Rumore, urla, pianti, richieste di Vigili del Fuoco di mandare un cane a controllare. Vado, mi guardano le spalle, va un altro cane, io controllo. Qualcuno grida "fermi tutti, silenzio" e tutto si ferma. Solo i cani continuano a camminare sulle  macerie in cerca di odori. La tensione si taglia con il coltello. L’aspettativa arriva alle stelle. Non ci pensare, Non ci pensare. Fai il tuo lavoro. Non pensare che in questo momento centinaia di occhi ti guardano, aspettano un tuo cenno, un tuo gesto che alimenterebbe in maniera esponenziale la speranza di trovare qualcuno, e se disattesa  la delusione sarebbe enorme, non li guardare. Fai il tuo lavoro. Il cane si aggira in un punto, un vigile del fuoco ti guarda e riprende a muoversi a scavare, e tutto ricomincia. Il rumore assordante quasi ti tranquillizza. Meno male, un po’ di occhi non guardano più noi. Guardi il cane, guardi i tuoi colleghi ti guardi intorno, eviti di guardare le persone che potrebbero avere parenti o amici sotto quelle macerie. I cani abbaiano, gli occhi scrutano.
E continui continui continui. Cambi posti, controlli, entri nelle case delle persone e controlli, vai al centro dell’Aquila una palazzina caduta una ragazza ancora sotto. Mandi i cani. Ancora. Controlla i colleghi. Sorreggi i colleghi con le lacrime agli occhi. Nessuno si deve mai sentire solo. Vai ad Onna. Non c’è più nessuno. Il silenzio è assordante. Controlli. Non c’è più nessuno. E devi pensare a quanto hai fatto mai a quanto avresti potuto fare se……il pensiero giusto è che hai fatto tutto quanto era nelle tue possibilità.
E poi si torna all’Aquila, alla prima tendopoli creata. La prima cosa che mi colpisce profondamente come un pugno in pieno stomaco è l’assoluta compostezza e educazione con cui gli abruzzesi affrontano la tragedia. Molti di loro hanno perso il futuro, altri anche il passato e sono lì in dignitosa attesa di poter sopravvivere, mangiare, bere, dormire. E lì scopro che è molto molto più semplice gestire le emozioni forti, il pianto a dirotto magari anche la maleducazione, piuttosto che la dignità composta di chi in quel momento pur avendo perso tanto, magari tutto, è nell'attesa di avere la possibilità di tornare a vivere. E mi rimane impressa la richiesta di una signora giovane, mi guarda, si avvicina e mi chiede "sa dove posso trovare un pannolino per cambiare il mio bambino?"…… un pannolino! No, non lo so. Provi alla tenda della Croce Rossa.
Riprendiamo il nostro lavoro, ormai a 12 ore dal sisma le possibilità di trovare qualcuno vivo sono poche. Ma controlliamo lo stesso gli altri Paesi. E poi si torna a casa……
Arrivano SMS di amici, parenti, di chi sa dove sei. Messaggi di ringraziamento, o di sostegno per i volontari. E l’unico mio pensiero è che non siamo noi a dover essere sostenuti. C’è una mamma che non ha un pannolino per cambiare il suo bambino.
Il giorno dopo mi preparo per la seconda parte dell’emergenza. Amici e conoscenti iniziano a chiederti cosa serve. Tutti vogliono partecipare in qualche modo. Serve tutto. Coperte, alimenti in scatola, alimenti per bambini e…….pannolini. Organizzi la raccolta delle donazioni, organizzi non senza problemi il viaggio per tornare in Abruzzo. Chiedi ai colleghi che sono lì  ai quali andremo a dare il cambio cosa è necessario portarsi. E manca ancora tutto. Manca anche l’acqua per lavarsi. E il cibo non è tantissimo e prima dei volontari ci sono i terremotati. E ricordi l’importanza di cose che in condizioni normali non degni neanche di un pensiero. Non si pensa mai quanto è importante avere con se della comunissima carta igienica. Perché i denti in qualche modo li pulisci con un chewing gum……….    E due giorni dopo parto di nuovo. Destinazione S. Vittorino. 72 ore di servizio a 72 ore da sisma. Tutto un altro scenario. Tende da montare, campi da allestire, magazzini da ordinare, lista delle cose necessarie alla normale sopravvivenza. Fatica fisica, tanta. Apparente disorganizzazione. Ora le priorità sono completamente altre. Fai tutto quello che occorre. Tagli pomodori, monti tende, cataloghi la pasta, smisti le donazioni arrivate, servi i pasti, sposti per l’ennesima volta le cose da un magazzino all’altro. Qualcuno si occupa di tenere alimentato un fuoco. Meno male, il fuoco fa sempre calore umano. La voglia di darsi da fare è tantissima. E i momenti di attesa si gestiscono veramente male. Sembra tempo sprecato. Il pensiero che ci sono persone che non hanno ancora un posto dove dormire e te stai lì ad aspettare le tende da montare…. e pur sapendo che occorre tempo anche per far arrivare le tende, ci stai male lo stesso. Ci sono le cose essenziali nel campo, ma ancora c’è tanto da fare. Ma lì ci sei per dare una mano a riprendere a vivere... per chi è rimasto e per chi lo vuole. E anche se senti che si potrebbe fare molto ma molto di più, sei comunque consapevole che stai dando e facendo il massimo che potevi dare e fare. E siamo volontari. Il nostro compito è questo. E lo stiamo portando avanti bene. E piano piano pensi che se la mamma del primo giorno ora ha almeno i pannolini per cambiare il suo bambino un po’ è anche merito tuo.
Passano le 72 ore. Si torna a casa. Partono altri colleghi. Dopo alcuni giorni torno a San Vittorino. Scenario ancora diverso. Ora, se non fosse che gli occupanti dovranno stare lì per mesi,  il campo sembra un ridente campeggio ben organizzato di qualche club vacanze. I bagni sono aumentati, la cucina è stata trasferita ed ora è molto più grande e funzionale, tra una tenda e l’altra sono state messe le passerelle. Compaiono le lavatrici e le tavole da stiro. Le richieste si dirottano verso stendini, mollette, sapone per lavatrici e lamette da barba. Lentamente la vita riprende. Qualcuno ha portato un televisore, una play station, un Karaoke. Certo il campo è molto più accogliente. Ma appena arrivo si sente subito l’energia e gli umori completamente diversi rispetto ai primi giorni. Prima la priorità assoluta era sopravvivere. Ma una volta esaudito il bisogno primario i secondari passano in primo piano. E la totale inattività dei nativi fa salire al massimo la tensione. Gli abruzzesi sono un popolo fiero. Non possono stare lì a guardare noi che gli mettiamo su le tende e loro non possono fare niente. Gli abruzzesi sono persone che si danno da fare. E gli uomini non stanno con le mani in mano. Gli abruzzesi sono persone alle quali, davanti ad un bar aperto, abbiamo chiesto se potevamo avere un caffè e sono entrati loro nel bar pericolante per portarci fuori i caffè e alle nostre proteste di evitare di entrare nel bar, ci hanno risposto che facevamo talmente tanto per loro che preparare un caffè in un bar dichiarato inagibile era il minimo che potevano fare.
.. non sono persone che stanno alla finestra a guardare. E questa inattività genera tensioni. E da semplice volontario è facile pensare che basterebbe dare a qualcuno dei nativi la responsabilità della gestione del campo, distribuire un po' i compiti per fare sentire partecipi alla ricostruzione e utili per se stessi e per il prossimo anche gli abruzzesi. Ma probabilmente non è così semplice. La certezza di essere sopravvissuti, ora lascia spazio ad uno sguardo che fa male, lo sguardo negli occhi degli uomini e delle donne che da giorni ormai vivono nelle tende, grida tutta la voglia di rinascere e di partecipare attivamente alla ripresa della vita. E ti rendi conto che non puoi farci niente. Puoi solo prenderne atto, dispensare sorrisi e provvedere alle necessità pratiche. Quelle che puoi soddisfare.
Ripercorrendo molto a grandi linee le varie fasi ci si rende conto di come sono diversi gli stati d’animo, le energie e le priorità nei vari momenti passati accanto a chi veramente la tragedia l’ha vissuta sulla propria pelle. A me ha lasciato un bagaglio in più, a loro qualcosa in meno, una casa, un parente, un lavoro o quant’altro.



 
 
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