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Terremoto e maremoto in Giappone

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C.I.P. n. 13 - TERRITORIO
TERREMOTO E MAREMOTO IN GIAPPONE, 11 MARZO 2011.
ANALISI DEI FENOMENI
Giovanni Maria Di Buduo
Geologo



La litosfera è la parte più superficiale del nostro pianeta, è caratterizzata da un comportamento prevalentemente fragile, ed è frammentata in 13 grandi placche (fig. 2) (Pacifica, Nazca, Cocos, Nord Americana, Caraibica, Sud Americana, Eurasiatica, Africana, Arabica, Indiana, Australiana, Filippine e Antartica) e in numerose placche di minori dimensioni (la litosfera non va confusa con la crosta terrestre, distinta in base alla composizione chimica). Essa ha uno spessore molto variabile, compreso in genere tra 5-10 chilometri e poco più di 100 (comprende la crosta e una parte del mantello superiore); al di sotto di essa si trova l’astenosfera (fig. 3 e 4), in cui una piccola percentuale di rocce si trova allo stato fuso, che si trova in genere tra 100 e 350 km di profondità, e riveste un ruolo fondamentale nella dinamica terrestre, perché è il livello in cui la litosfera si muove rispetto al mantello sottostante.
Il Giappone si trova in prossimità del confine tra 4 placche, dove si incontrano 3 zone di subduzione; due di queste hanno un andamento all’incirca parallelo alla costa giapponese orientale: a sud la placca filippina subduce sotto quella euroasiatica, a nord la placca pacifica scorre sotto quella nordamericana (fig. 3). A causa del loro assetto geodinamico le zone di subduzione delle placche sono caratterizzate da eventi sismici frequenti e di energia molto elevata: le coste dell’Oceano Pacifico sono infatti dette "anello di fuoco" a causa dell’intensa attività vulcanica e sismica che vi si genera.
Il fondo del Pacifico continua a formarsi lungo le dorsali oceaniche da centinaia di milioni di anni; man mano che si forma si sposta allontanandosi da esse in direzione delle fosse, per venire poi consumato nel processo di subduzione (fig. 2): nelle zone dove una placca scorre l’altra i forti attriti provocano periodicamente la formazione di grandi fratture (faglie) nelle rocce coinvolte nella subduzione (che generano terremoti molto forti) e le condizioni di temperatura e pressione provocano la fusione parziale delle rocce e la conseguente risalita di grandi quantità di magma che alimentano i vulcani in superficie (fig. 4).


Fig. 2 – Il mosaico delle placche litosferiche in continuo movimento; dall’alto verso il basso: nome delle placche, tipi di margini, velocità. Fig. 2a: le placche più grandi in cui è divisa la litosfera: le frecce rosse indicano i movimenti relativi [wikipedia]; fig. 2b: le linee azzurre rappresentano i margini convergenti, le linee nere i margini conservativi, le linee rosso scuro in grassetto i margini divergenti (dorsali oceaniche); i triangoli e i cerchi rossi evidenziano le aree con attività vulcanica, che è concentrata in corrispondenza dei margini convergenti [I.N.G.V.]; fig. 2c: velocità dei movimenti relativi delle placche ricavati dalla geodesia spaziale: si prenda come riferimento in basso a sinistra la lunghezza della freccia che indica una velocità di 5 centimetri all’anno [Heflin et al, NASA].



Fig. 3 – Il Giappone si trova in prossimità del confine tra 4 placche, che si muovono in direzioni diverse con velocità differenti (la placca pacifica si muove verso il Giappone di circa 8 cm ogni anno); nella figura di destra è riportato l’epicentro del terremoto dell’11 marzo 2011, ma non è tracciata la placca nordamericana [immagine a sinistra: www.volcanolovers.net; immagine a destra: http://volcano.und.nodak.edu].



Fig. 4 – Sezione schematica dell’assetto geodinamico nel Giappone settentrionale: la placca asiatica scorre sotto quella nordamericana: le condizioni di pressione e temperatura sono tali da provocare la fusione parziale delle rocce e la conseguente risalita verso la superficie di magma, che genera una serie di edifici vulcanici; nella figura in alto i cerchi colorati indicano gli ipocentri dei terremoti che si generano lungo la placca in subduzione (in blu quelli più superficiali, in rosso i più profondi) [immagine in basso: Tasa Graphic Arts - modificata].



IL TERREMOTO DELL’11 MARZO 2011

Il sisma si è verificato l’11 marzo 2011 alle 14:46 locali (06:46 in Italia) con un epicentro situato vicino alla costa orientale della regione di Honshu, più di 370 km a nord-est di Tokio e quasi 180 km ad est-nord-est dell’ormai tristemente nota Fukushima; l’ipocentro è stato localizzato ad una profondità di circa 24 km lungo il contatto tra la placca pacifica e quella nordamericana (fig. 7a). Con una magnitudo momento sismico di 9.0 è stato il più potente sisma mai misurato in Giappone ed il quinto di sempre.


Epicentri dei terremoti tra il 9 e il 10 marzo 2011 (cerchi gialli), dell’evento principale dell’ 11 marzo (cerchio arancione più grande) e dello sciame sismico delle successive 24 ore (cerchi arancioni e rossi); la grandezza dei cerchi è proporzionale all’energia liberata dai sismi [www.scientificamerican.com].


Magnitudine dei terremoti verificatisi a largo della costa di Honshu tra il 9 e il 14 marzo 2011: sono evidenti i due eventi principali del 9 marzo (che non ha provocato danni rilevanti) e dell’11 marzo, e le relative repliche di minore intensità [www.scientificamerican.com - modificata].


L'accelerazione del suolo ha raggiunto valori di picco di quasi 3 volte superiori all’accelerazione di gravità. La grande energia sprigionata dal sisma ha spostato le coste del paese di circa 4 metri verso est e causato lo spostamento dell'asse terrestre di circa 17 centimetri [fonte: NASA]. Lo spostamento dell’asse di rotazione terrestre non è di per sé un evento eccezionale: lo spostamento di grandi masse lungo estese faglie che si verifica in occasione di grandi terremoti cambia la distribuzione della massa della Terra e forza l’asse di rotazione a modificare il suo percorso verso una posizione di massima stabilità. L’entità della deviazione dell'asse terrestre è proporzionale alla magnitudo del sisma, e dipende anche dalla sua posizione, ovvero dalla posizione delle masse che si spostano rispetto al baricentro: più vicino è l’ipocentro all’equatore (a parità di movimento) e minore è l’effetto sull’asse terrestre. L’effetto del sisma dell’11 marzo è stato di una diminuzione del tempo d rotazione della Terra di circa 1,6 milionesimi di secondo [NASA], le conseguenze pratiche sono al limite del misurabile e quindi non hanno motivo di destare preoccupazione: la variazione è permanente,e si accumula diventando via via maggiore, ma con effetti che nella scala delle misure comuni hanno un impatto infinitesimo (da un calcolo approssimativo si desume che tra 100'000 anni il tempo di rotazione sarà più breve rispetto ad oggi di qualche minuto).
Il terremoto dell’11 marzo è stato preceduto da un sisma di magnitudo 7.2 avvenuto il 9 marzo a circa 40 km di distanza dall’evento dell’11 e da repliche nelle successive 48 ore, tra cui altri 3 terremoti di magnitudo maggiore di 6 nello stesso giorno: in occasione del sisma del 9 marzo non sono stati segnalati danni rilevanti e si sono avute onde anomale di ampiezza fino a 60 centimetri nel porto di Ofunato.
Dal 1973 ad oggi, lungo la zona di subduzione della fossa del Giappone, sono avvenuti 9 eventi di magnitudo superiore a 7. Il più grande fra questi è stato un terremoto di magnitudo 7.8 avvenuto nel dicembre del 1994 e localizzato a circa 230 km a nord dell’evento dell’11 marzo [fonte: I.N.G.V.].
In seguito alla scossa si è generato un maremoto con onde che hanno raggiunto una velocità di circa 750 km/h, ed un’altezza massima di quasi 39 metri presso la penisola di Omoe nelle vicinanze della città di Miyako; i danni più ingenti si sono verificati nella prefettura di Miyagi, più urbanizzata, con automobili, edifici, navi e treni travolti dalle onde. La costa settentrionale dell'isola di Honshu è stata oggetto in passato di diversi maremoti, tra cui quello del 1933 costato la vita a più di 3.000 persone.
I danni causati dalle onde sismiche sono stati trascurabili rispetto a quelli generati dal maremoto: fin dal secondo dopoguerra infatti la ricostruzione del Giappone è stata portata avanti tenendo in forte considerazione i criteri antisismici. Tali criteri sono stati ovviamente perfezionati nei decenni successivi con il miglioramento delle conoscenze geologiche e delle tecniche costruttive: gran parte del patrimonio edilizio giapponese (a differenza di quello italiano) è in grado di resistere a sollecitazioni sismiche molto intense in ampiezza e durata. Basti pensare che il sisma in esame ha liberato un’energia circa 30 mila volte (!) superiore a quello avvenuto nell’aquilano il 6 aprile 2009.



IL MAREMOTO DELL’11 MARZO 2011

La lunghezza della zona di frattura ammonta a 300-400 km, con un movimento relativo prodotto tra i due blocchi a contatto di 10-20 metri [fonte: scientificamerican.com]. La frattura si è propagata verso l’alto fino al fondale marino producendo un suo improvviso movimento verso l’alto che è stato trasmesso alla colonna d’acqua sovrastante generando un forte maremoto (fig. 7, 8). Quando il movimento generato da un terremoto arriva ad interessare il fondale marino la perturbazione provocata dal suo spostamento si trasmette ad un imponente volume d’acqua: essa, essendo incomprimibile, trasmette con molta efficacia l’energia ricevuta sotto forma di onde dotate di lunghezza e velocità molto elevate (i maremoti, oltre che da terremoti sul fondale marino, possono essere provocati da frane, eruzioni vulcaniche e, per fortuna molto raramente, dalla caduta di meteoriti).
Lo spostamento d'acqua crea onde superficiali molto lunghe, tipicamente di qualche centinaio di chilometri e quindi di lungo periodo, qualche decina di minuti in condizioni di mare aperto. Per confronto le normali onde marine (generate dal vento) hanno lunghezze d'onda di pochi metri e un periodo di solo qualche secondo mentre le onde di tempesta hanno lunghezze al massimo di 150 metri e un periodo di una decina di secondi: la lunghezza, l'estensione e il periodo delle onde di un maremoto sono quindi di gran lunga superiori a quelle delle comuni onde marine. Inoltre nelle comuni onde marine solo il volume d'acqua degli strati superficiali dell'oceano è direttamente mossa dal vento, mentre nel maremoto il fenomeno dell'onda coinvolge l'intera colonna d'acqua, dal fondale alla superficie (fig. 7c).
Le velocità di propagazione delle onde di maremoto a largo sono in genere di centinaia di chilometri orari, raggiungendo anche valori di 500-1000km/h, con lunghezze d'onda di centinaia di chilometri ed altezze di alcuni centimetri, poco osservabili se non con particolari e apposite strumentazioni. Avvicinandosi alla costa la diminuzione di profondità comporta l’aumento dell’altezza delle onde che acquistano anche capacità di erosione e trasporto sul fondo a causa dell’attrito con esso: in questo modo possono entrare anche per diversi chilometri sulla terraferma pianeggiante con effetti altamente distruttivi, sia nella fase montante che in quella di risacca. Infatti "tsunami" è una parola giapponese che significa "onda (nami) nel porto (tsu)", in quanto anticamente si osservava che alcune onde diventavano devastanti avvicinandosi alla costa.


Fig. 7 – Schema illustrante la genesi del maremoto. Fig. 7a, 7b: il sollevamento della massa d’acqua causata dal movimento sul fondo marino diviene via via maggiore man mano che la profondità diminuisce [7a: www.scientificamerican.com – modificata; 7b: Press & Siever]. Fig. 7c: le onde prodotte dal vento muovono solo la parte superficiale dell’acqua, mentre le onde di maremoto invece muovono tutta la colonna d’acqua dal fondo alla superficie;  per questo hanno una forza d’impatto sulla costa estremamente elevata e sono in grado di avanzare nell’entroterra anche per alcuni chilometri. [I.N.G.V.]



Fig. 8 – Altezza dell’onda di maremoto dell’11/03/2011 nell’Oceano Pacifico: sulla destra è riportata la scala dei colori (in nero altezza maggiore di 240 cm, in viola circa 100 cm, in rosso circa 20 cm), le sottili linee grigie tracciate sull’oceano indicano quante ore ha impiegato l’onda a propagarsi [National Oceanic & Atmospheric Administration].


In estrema sintesi i danni devastanti causati in Giappone dal maremoto possono esser imputati agli elevati valori di altezza e ampiezza dell’onda di tsunami, che hanno permesso alle acque di superare le barriere anti maremoto presenti su circa il 40% delle coste giapponesi, e di penetrare con forte energia per diversi chilometri nell’entroterra.
I metodi di difesa e allarme non erano quindi calibrati a sopportare un evento di tale intensità; l’energia trasmessa alla colonna d’acqua dal terremoto è stata molto elevata anche a causa della bassa profondità dell’ipocentro (24 km, in confronto al piano di subduzione che può arrivare anche a 600-700 km di profondità).
Il maremoto si è propagato in tutto l’Oceano Pacifico con altezze minori e quindi con effetti meno dannosi (fig. 8): a Crescent City, in California al confine con l'Oregon, le onde hanno raggiunto un’altezza di 2 metri ed hanno provocato l'unico morto del continente americano, undici imbarcazioni affondate e 47 danneggiate.
Sulle coste italiane i maremoti conosciuti dal 79 d.C. ad oggi sono 67 [fonte: I.N.G.V]: l'ultimo è avvenuto il 30 dicembre 2002 a Stromboli (Isole Eolie), causato da una frana nella Sciara del Fuoco. Nel nostro continente non ci sono però regimi geodinamici confrontabili con le zone di subduzione del Giappone. L’unica struttura di subduzione è di piccole dimensioni e si trova nel Mar Tirreno, a modesta profondità sotto l’arco delle Isole Eolie. In Italia esistono altri sistemi di faglie che si attivano per movimenti diversi da quello della subduzione: per esempio i processi di compressione e collasso lungo i sistemi di catene montuose di origine recente come l’Appennino (si veda l’articolo "La pericolosità sismica in Italia" C.I.P. n. 8, agosto 2009).


Fig. 9 – Foto da satellite della costa intorno a Sendai prima (sinistra) e dopo (destra) il maremoto: si può notare che l’onda di maremoto è entrata nella costa per alcuni chilometri [NASA Earth Observatory].



Fig. 10 – L’onda di maremoto arriva a Miyako City.


Fig. 11 – L’onda di maremoto sommerge la costa.



Fig. 12 – La costa di Sendai prima e dopo il maremoto [immagini: Google].



Fig. 13 – Gli effetti devastanti del maremoto.



 
 
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