Le domande senza risposta di Dino Buzzati - Conosco Imparo Prevengo

PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE, PROTEZIONE CIVILE, SICUREZZA, TERRITORIO
Vai ai contenuti

Menu principale:

Le domande senza risposta di Dino Buzzati

Archivio > Dicembre 2011 > Psicologia delle emergenze

C.I.P. n. 15 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE

EMERGENZA… E LETTERATURA
Le domande senza risposta di Dino Buzzati
Michele Grano

Psicologo dell’educazione e dell’età evolutiva, socio Psic-AR




Lo scrittore Dino Buzzati lavorò come cronista, redattore e inviato speciale al «Corriere della Sera», raccontando le grandi tragedie che hanno segnato il nostro Paese nell’arco di quasi trent’anni.
Le sue cronache, raccolte nel volume "La «nera» di Dino Buzzati / Incubi", sono un florilegio di scritti commoventi e drammatici, spesso duri, ma sempre trattati con lo stile inconfondibile di uno dei più grandi scrittori del Novecento, in cui il realismo si sposa con il lirismo, e la concretezza del reporter è arricchita dallo sguardo creativo e trasfigurante del narratore. Si tratta di un volume prezioso per tutti, probabilmente ancora più prezioso per quanti lavorano nel settore dell’emergenza e si confrontano assiduamente con gli aspetti dolorosi e spesso assurdi di calamità, disastri, incidenti.
Buzzati tratteggia dei quadri vividi, penetranti, e i suoi sentimenti di inquietudine sdegno sconforto impotenza orrore smarrimento paura speranza riescono a coinvolgere pienamente il lettore. Egli ci presta davvero gli occhi e il cuore, le sue domande sono le nostre, e viceversa; egli ci prende per mano e ci accompagna ora sui luoghi della tragedia di Albenga, che ammutolì l’Italia nel 1947 con la morte di 44 bambini ("La camera ardente di Albenga resterà fra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita"), ora ai piedi dell’aereo dei calciatori schiantatosi contro la basilica di Superga nel 1949 ("Nebbia pioggia vento silenzio là dove, sei ore fa, s’è sfracellato l’aeroplano che riportava a Torino la più bella squadra di calcio d’Italia"), ora nelle acque gelide in cui nel 1956 affondò l’Andrea Doria ("Chi ha assistito a naufragi sa come, nell’estrema agonia, i bastimenti non siano più strutture inanimate ma rivelino finalmente, talora con misteriosi gemiti, di essere delle creature vive, capaci di soffrire come noi") ora nella sua terra devastata dalla frana del Vajont ("Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi").
Ma, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, non si esce da questo viaggio nella nostra storia più drammatica con un senso di angoscia o di cieca disperazione. Lo scrittore ci guida e ci fa specchiare nei sentimenti legati alla catastrofe, alla perdita, al lutto, potremmo dire con ferma delicatezza, in un certo qual modo aiutandoci a porre le domande "giuste" di fronte ad essi; in un certo qual modo facendoci sentire che ogni uomo vive reazioni forti e terribili di fronte a tali eventi – e, per quanto umano, non è sensato per la nostra vita eluderle, metterle a tacere, rimuoverle. Non è sensato, perché in fondo è impossibile.
Come ha scritto Lorenzo Viganò nell’introduzione alla raccolta, Buzzati descrive la realtà "cogliendone gli aspetti più intimi, più segreti, più tormentati. Rendendo semplice ciò che di tumultuoso, di drammatico e di disperato accadeva nell’animo umano". E così, calandosi in queste pagine sembra di essere meno soli nell’affrontare, tremando, gli aspetti più dolorosi della nostra esistenza, e ognuno si sente invitato a farci i conti, a tentare di comprenderli, elaborarli, trascenderli.
Buzzati ci propone la discesa in un oceano fondo come la nostra psiche, nel quale immergersi anche quando ci sentiamo sopraffatti o scossi da eventi abnormi, quando ci sentiamo piccoli piccoli di fronte a quesiti che sembrano insolubili. E proprio questa immersione, appassionata e al di là di ogni retorica, può aiutarci ad accendere sorprendenti scintille di trasformazione e catarsi.
Tra i tanti possibili, proponiamo sulla nostra rubrica l’articolo "Domande senza risposta", per la tematica singolarmente attuale e – come vedremo – molto vicina alla filosofia che da sempre anima l’impegno del Centro Alfredo Rampi.


No, non è possibile: – è il pensiero di molti di fronte alla  sciagura – siamo una nazione civile, in prima linea sulla strada del progresso, abbiamo industrie d’avanguardia, centrali nucleari, autostrade, transatlantici famosi. Poi viene l’autunno, piove a dirotto due tre giorni, e il paese piomba in lutto. Ci deve essere un errore di base, una contraddizione profonda, una educazione sbagliata.[…]
Né si può dire che la nostra sia indifferenza o cinismo. Piuttosto un costume di spensieratezza, l’abitudine di campare alla giornata. Quando poi succede il disastro, lo slancio degli animi non manca. Quando si piange, piangiamo sul serio, ce la mettiamo tutta nel venire in aiuto ai disgraziati. In questi momenti l’italiano, bisogna dire, è generoso. Dopodichè, chiuso. Passata la festa, gabbato lo santo. […]
L’Italia è piccola ma anche complicata, i suoi chilometri quadrati, al confronto della Russia, dell’India, della Cina, sono pochini eppure in questo fazzoletto di terra la natura si è sbizzarrita a inventare una infinità di trappole a sorpresa: tagliole che basta un niente per far scattare e magari sono lì da secoli ma siccome per secoli non si sono mosse nessuno ci fa caso. E i fiumi scorrono placidi, e sembrano così onesti e inoffensivi, nessuno pensa seriamente a quello che c’è sotto, che c’è sopra, che c’è dentro. […] Così i boschi, che è così comodo tagliare nella stagione del bel tempo per fare un po’ di soldi, ma dopo resta la montagna nuda dalla quale l’acqua precipita selvaggia, e il buon affare paga, a scadenza lontana, con l’alluvione, con la frana, con il crollo della casa mentre dentro stanno padre, madre, bambini, nonni, nel colmo della notte. […]
Cosicché qui da noi c’è una regola alterna di ottimismo e di cupa disperazione, di dissipazione e di virili proponimenti. Dopo ogni calamità, lacrime a non finire, e giuramenti, e progetti di legge. Però subito dopo, ci si siede. Finché l’autunno successivo, rovesciandosi l’acqua dal cielo come è antica norma di natura, gli alberi tagliati stoltamente, il fiume e il torrente trascurati, le ripe non difese, gli argini non nutriti, malamente si vendicano. E la gente muore.
Certo è duro spendere milioni e miliardi, faticare e sudare per una cosa che, almeno in apparenza, non rende un centesimo, che potrebbe anche essere del tutto superflua, che non diverte, non produce, non offre alcuna pratica soddisfazione. Eppure proprio qui sta la saggezza, diciamo meglio: proprio qui sta la vera civiltà di una nazione […]


Se non conoscessimo il nome dell’autore e la data di pubblicazione, potremmo senz’altro pensare che il brano proposto sia stato scritto all’indomani delle alluvioni che hanno colpito Genova o il messinese nel novembre appena trascorso – le cui immagini rivivono ancora nitide e tremende nella memoria collettiva, i cui interrogativi ancora interpellano le nostre coscienze. Potremmo pensare, in effetti, a un qualunque disastro idrogeologico avvenuto nel nostro Paese. In realtà l’articolo proposto è apparso il 5 novembre 1968 sul «Corriere della Sera» e si riferisce alla tragica alluvione di Valle Mosso (Vercelli) in cui persero la vita più di quaranta persone.
È superfluo ribadire la triste attualità di questa pagina. È sotto gli occhi di tutti che ancora oggi la maggior parte dei disastri nel nostro Paese dipende direttamente dall’irresponsabilità individuale e sociale, dalla noncuranza, dall’uso utilitaristico e sconsiderato dell’ambiente, dall’educazione semplicistica o sbagliata.
Buzzati è acuto nel tratteggiare questo (mal)costume tipico italiano. Quello che più fa riflettere è la sensazione che in quarantaquattro anni poco sia cambiato; la percezione che la prevenzione – a tutti i livelli – non sia ancora al centro della riflessione individuale e collettiva, della progettazione culturale e formativa, dell’impegno sociale e politico.
La conclusione cui giunge Buzzati è amara (e in fondo è lo stesso refrain che ritorna fatalmente dopo ogni nuova sciagura): "Anche questa volta udremo nobili e ferrei propositi, ci saranno interpellanze, granitiche assicurazioni e promesse, larghi stanziamenti. Ma domani? Dopodomani al più tardi, dopo che i morti saranno sepolti con tutte le disperazioni del caso, dopodomani non ci penseremo più, le sentinelle si addormenteranno, gli stanziamenti si impaluderanno."
Al termine dell’articolo – quasi un manifesto per quanti operano quotidianamente, silenziosamente nel campo della prevenzione – non possiamo non domandarci con lo scrittore: "…E chi si metterà a dragare i fiumi? Chi rinforzerà gli argini? Chi pianterà nuovi abeti?", aggiungendo un’ulteriore, urgente domanda senza risposta, che ci sta a cuore e che è a monte di tutte le altre: chi metterà al primo posto quella "cosa che, almeno in apparenza non rende un centesimo" ma in cui risiede "la saggezza, la civiltà di una nazione"?

I grandi artisti hanno il dono di raccontare la realtà con poche immagini efficaci, con metafore suggestive e toccanti. Riescono a intuire porti lontani e sovente trovano i sentieri per raggiungerli; riemergendo dalla nebbia, provano a indicare la strada che loro stessi hanno sognato, o percorso, ma senza enfasi, né smania di persuasione. Sono sosta rifocillante e invito a ripartire, sempre. Sono la nostra segnaletica per l’oltre, e insieme il panorama da ammirare.  
Se – cogliendo l’ispirazione di Buzzati – riaffermiamo con fermezza che la formazione carente e la preparazione inadeguata rinforzano le mentalità e le condotte superficiali, nonché gli atteggiamenti di egoismo e di sfiducia, patologie che sono all’origine di numerose calamità (o che, se non altro, riducono le capacità dei singoli e delle comunità a farvi fronte) l’unico antivirus opportuno sembra essere l’educazione.
Educare al bene per l’umano, al senso di responsabilità, alla partecipazione sociale, al rispetto per gli altri e per ogni ambiente di vita; rispondere alle aspirazioni di giustizia e bellezza, verità e altruismo, sicurezza e benessere; far apprendere i comportamenti di autoprotezione e soccorso: questa, forse, la strada per mettere in discussione ogni antinomia, per contrastare le visioni individualistiche e fatalistiche, per costruire rapporti autenticamente solidali… Questa, forse, la risposta?




 
 
Cerca
Torna ai contenuti | Torna al menu